Chissà cosa avrà pensato domenica pomeriggio da lassù Fred Perry, quando finalmente ha capito che dopo 77 anni non sarà più il britannico più nominato dai suoi conterranei durante la prima settimana di luglio. Dal suo successo contro il tedesco Von Cramm, nell'ormai lontano 1936, nessun suddito di Sua Maestà era più riuscito a imporsi sull'erba di Wimbledon. Ci avevano provato in molti, ma nessuno si era neanche avvicinato al successo, mentre giocatori di tutto il Mondo arrivavano al successo e ricevevano i meritati applausi del popolo di casa. Per i britannici l'attesa è stata lunga e snervante, per oltre 70 anni nessuno di loro è mai andato oltre le semifinali del torneo, e il centrale di Wimbledon a tratti sembrava davvero stregato.
Almeno fino a domenica pomeriggio, quando Andy Murray ha finalmente spezzato la manifestazione. Il tennista, scozzese di nascita (e ogni volta che perdeva) ma britannico di formazione, si è imposto con merito in tre set contro il numero 1 del mondo Novak Djokovic, concludendo un torneo che lo ha visto grande protagonista e lo porta finalmente tra i grandi di questo sport. Da tempo accusato di non saper reggere la pressione dei momenti importanti, Murray ha invece mostrato una clamorosa solidità mentale, riuscendo spesso ad uscire da situazioni difficili con freddezza e senza mai perdere il controllo del match. Emblematico il game decisivo della finale, con lo scozzese avanti 40-0 con tre match point, rimontato e quattro volte sul punto di subire il break da Djokovic, ma sempre in grado di non disunirsi e alla fine vittorioso. E' stata anche la grande rivincita di Andy, che solo un anno fa era stato dolorosamente sconfitto in finale a Wimbledon da Federer, ma paradossalmente è stato proprio quello il momento della svolta. Il britannico ha reagito subito dopo, prendendosi l'oro olimpico, sempre sull'erba inglese e proprio contro Federer, poi ha ottenuto il primo successo negli Slam vincendo gli U.S. Open contro Djokovic. Da lì il suo pensiero è andato solo e soprattutto a Wimbledon, saltando il Roland Garros per infortunio ha potuto concentrare allenamento e forze sul torneo di casa, e così si è realizzata la sua impresa. Merito anche del suo allenatore, l'ex campione ceco Ivan Lendl, che pure ha vissuto Wimbledon come un'autentica maledizione, visto che è l'unico torneo dello Slam che non ha mai vinto, perdendo due volte in finale. In qualche modo, Murray ha vinto il titolo anche per lui, come ha dichiarato lui stesso con le lacrime agli occhi a fine match, rendendo merito al suo maestro.
Anche in campo femminile si è assistito alla trasformazione di un brutto anatroccolo in un bel cigno, anche se in questo caso il risultato è stato molto meno atteso. A spuntarla è stata Marion Bartoli, francese di quasi ventinove anni, che si è aggiudicata lo Slam senza perdere nemmeno un set e superando in finale la tedesca Lisicki, rivelatasi troppo acerba ed emotiva per questo grande appuntamento. Quella della transalpina è la vittoria della più classica delle antidive: non appariscente né bella come la Sharapova, sovrappeso anche per scelta del padre-allenatore (diceva che era meglio per lei così non sarebbe stata distratta dai ragazzi...), quasi sgraziata e macchinosa con il suo servizio elaborato e la sua presa bimane sulla racchetta. Eppure la Bartoli, già finalista perdente nel 2007 contro Venus Williams, ha preparato alla perfezione l'appuntamento e si è presa la vittoria finale con merito, mostrandosi sempre solida nelle risposte e nel suo gioco. Anche dietro questo successo c'è la mano di una campionessa, ovvero Amelie Mauresmo, vincitrice in Inghilterra nel 2006 e consulente della connazionale dopo il Roland Garros per permetterle di fare quel salto di qualità che è finalmente arrivato. Curiosamente, la Bartoli ha vinto senza mai affrontare una top ten né un'atleta a lei superiore nel ranking.
Questa è stata un'altra curiosità di questa edizione di Wimbledon: l'ecatombe delle teste di serie, in campo maschile e soprattutto femminile. Tra gli uomini, due campioni come Federer e Nadal sono stati eliminati già nella prima settimana, rispettivamente al secondo e al primo turno, dall'ucraino Stakhovsky e dal belga Darcis, non proprio due fenomeni della racchetta. Ancora più incredibile quello che è successo tra le donne, con la caduta in serie di Sharapova, Azarenka (entrambe al secondo turno) e soprattutto Serena Williams, numero 1 femminile e vincitrice quest'anno a Parigi ma sconfitta al quarto turno dalla Lisicki. Male purtroppo anche la nostra Sara Errani, che è stata eliminata già al primo turno, ma in generale la spedizione azzurra può dirsi soddisfatta. Per la prima volta nella storia, quattro italiani (Seppi tra gli uomini, Pennetta, Knapp e Vinci tra le donne) hanno raggiunto il quarto turno di Wimbledon, anche se poi hanno perso tutti senza ottenere neppure un set. Il doppio non ha portato grandi risultati, con il duo Errani-Vinci che si è confermato allergico all'erba, uscendo sconfitto già al terzo turno. La più grande soddisfazione per l'Italia però è arrivata dal torneo juniores, dove il diciassettenne Gianluigi Quinzi ha vinto il titolo, confermandosi uno dei migliori prospetti a livello giovanile. Prima di lui, solo Diego Nargiso nel 1987 aveva ottenuto un simile riconoscimento, anche se poi la sua carriera non aveva rispettato le attese. Ci auguriamo che per il giovane Quinzi le cose vadano meglio, e che dopo tanti anni di attesa torni finalmente a brillare una stella azzurra nel tennis maschile. Del resto, come i britannici hanno insegnato, l'attesa può essere lunga e difficile, ma quando poi la vittoria arriva, il suo sapore è ancora più dolce.