E' stata definita la confessione del secolo, uno degli eventi più importanti di sempre nella storia dello sport, lo scandalo più grave per il ciclismo mondiale. Dopo mille voci, ipotesi e supposizioni, finalmente uno degli atleti da sempre più discussi e più chiacchierati nella storia delle due ruote gettava la maschera e decideva di ammettere tutte le sue colpe, nascoste per anni in un alone di glorie e trionfi che, a questo punto, perdono tutto il loro significato. Lance Armstrong finalmente confessa, rivela quelle che all'inizio sembravano voci maligne e invidiose, e ora si scoprono quanto mai fondate: sì, tutti i 7 Tour vinti da lui erano frutto del doping, di un cocktail di sostanze proibite che rendevano il Cowboy imprendibile per i suoi avversari. Era tutto finto, niente di quello che abbiamo ammirato per anni sulle strade francesi era vero, migliaia e migliaia di persone hanno esultato per vittorie che si sono effimere, ottenute con l'inganno e non solo grazie alla fatica.
Il giorno dopo la seconda parte della confessione di Armstrong, rilasciata in Tv dal texano alla nota conduttrice Oprah Winfrey, quello che resta è un senso di amarezza profonda, di sconforto, di tristezza infinita per questa vicenda, che getta un'ulteriore ombra cupa sul mondo dello sport e in particolare del ciclismo, già massacrato da scandali e casi di doping illustri. E' davvero difficile trovare le parole da parte di chi, come il sottoscritto che scrive questo articolo, ha vissuto quegli anni con gli occhi del ragazzino appassionato di sport, che vedeva in questi atleti dei miti capaci di imprese epiche, straordinarie, e adesso scopre che i suoi eroi erano solo un enorme bluff. Per anni ci è stata raccontata la storia, a tratti commovente, di quest'uomo venuto dal Texas, capace di sconfiggere il cancro, il più terribile dei suoi avversari, di tornare alle corse e di diventare un fenomeno del ciclismo. Intendiamoci, non era un brocco prima dell'operazione e della malattia, visto che era diventato campione del Mondo ad appena 22 anni e si era aggiudicato un paio di tappe al Tour, su tutte quella del 1995, con la commovente dedica al compagno di squadra Fabio Casartelli, morto tre giorni prima per una caduta. Da questo, però, ad arrivare a 7 vittorie consecutive al Tour de France, per di più dopo il terribile calvario che aveva vissuto, ci voleva davvero qualcosa di speciale, di unico, di impensabile. Il ragazzino dell'epoca pensava quasi ad un regalo del cielo, ad una forza straordinaria che andava a risarcire Lance per quello che aveva vissuto, e gli rendeva con gli interessi quelle gioie che aveva rischiato di non poter mai più vivere. Il giovane di oggi si accorge tristemente che il destino non c'entra, e che era tutto frutto di quella maledetta sostanza chiamata EPO, un nome che colpisce al cuore tutti gli appassionati delle due ruote con la stessa violenza di un pugno sotto il mento.
Tutto finto dunque, le vittorie, gli scatti violenti e imperiosi in salita, le cronometro perfette, il sorriso sul podio con la maglia gialla cucita addosso. L'unica cosa vera, è la freddezza con cui Armstrong racconta queste pratiche dopanti, con cui affronta il peso delle accuse senza battere ciglio, come se quella pratica fosse una routine quotidiana e assolutamente normale. "Come riempire le borracce o mettere aria nelle gomme", riprendendo le sue stesse parole. E' questo il lato più agghiacciante di tutta questa vicenda: Armstrong confessa non perché è pentito di quello che ha fatto, ma semplicemente perché è costretto dalle circostanze e solo in questo modo può provare a ripulire un po' la sua immagine, ormai irrimediabilmente sporca. Secondo il suo principio, che colpa ha un atleta se in gruppo tutti o quasi sono dopati? Lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anche io? Anzi, visto che io vinco su tutti prendendo le stesse sostanze, vuol dire che sono veramente il più forte. Questo, ahime, è il punto di vista di chi non ha capito davvero quello che ha fatto, di chi non ha mai compreso quali sono i valori dello sport, il significato della vera fatica. Non ci si può riparare dietro la cortina del "Tutti lo facevano" per sentirsi innocenti, non può e non deve bastare una confessione così priva di pentimento e di sincerità . Armstrong è umano solo quando vengono coinvolti i suoi figli, i suoi primi difensori, ma è l'unico momento in cui dimostra questo lato di sé, quando racconta del doping è lo stesso, freddo personaggio che vinceva le corse con strategia, calcolo e lucidità , un robot senza una vera anima. Non è una confessione, la sua, è un mea culpa poco convinto e che appare pieno di lacune, con omissioni e tante verità tenute nascoste per proteggere qualcuno. Lo testimonia anche il fatto che per anni il texano si era sempre dichiarato innocente, vantandosi di non essere mai stato trovato positivo ad un controllo, usando tutti i mezzi possibili per screditare chi lo accusava di aver fatto uso di sostanze proibite per arrivare alla vittoria. Armstrong non è redento, forse non basterà tutta la vita per fargli capire qual è stata la portata del suo errore, e quello che ha provocato oggi la sua confessione nel cuore di migliaia di tifosi e appassionati.
Da questa sua intervista, di sicuro, il ciclismo riparte con un campione in meno e tanti dubbi in più, con la consapevolezza che lo spettro del doping è sempre fortissimo, e ben lontano dall'essere sconfitto. Per prima cosa, però, va sconfitta proprio quell'idea che ha portato Armstrong a fare tutto questo, quel principio secondo cui in un mondo di colpevoli tutti diventano innocenti. Partendo dai ragazzini, facendo loro capire la bellezza di una competizione sana, fatta solo di fatica e di volontà , in cui la vittoria non è l'unica cosa che conta. Solo così, partendo dalla testa e dalla preparazione di questi futuri campioni, potremo sperare di non dover mai più assistere alla nascita di un nuovo Armstrong, colui che molti vedevano come un mito, uno dei più grandi campioni di sempre, e che si è rivelato l'ennesimo colosso di pietra con le gambe d'argilla.