È arrivato in sala con una macchina fotografica al collo Franco Arminio, l’ospite dell’ultimo appuntamento con i Giovedì Rossettiani, quasi come fosse un turista. Forse anche quell’oggetto aiuta a comprendere meglio chi è: lui è un paesologo, come si definisce, uno che ama osservare i luoghi che non hanno niente da dire.
“La paesologia è una forma di attenzione, non è nostalgia del passato né della cultura dei paesi – spiega dialogando con Gianni Oliva -, è un’indagine per vedere attraverso le malattie del paese quelle del mondo intero. I miei non sono reportage oggettivi, sono interessato a tutto, ma guardo attraverso la mia interiorità, l’elemento interno è molto forte. Io vado in un paese e vago con la mente”.
Nei suoi testi in prosa e in versi racconta di paesi abbandonati, desolati, simbolo del deragliamento della nostra civiltà. “C’è stata una fuga da questi luoghi, le persone si sono lasciate attrarre dal mito delle città, viste come sinonimo di modernità, incoraggiate anche dalle istituzioni. È stata una migrazione miope: si poteva incentivare la gente a rimanere promuovendo agricoltura e servizi. Ora c’è il sovrappopolamento delle coste e lo svuotamento dell’Appennino. L’Italia, eccetto la pianura Padana, è fatta di montagne: ci siamo allontanati dalle origini”.
In quei paesi, spiega, la vita era più semplice e si può vivere bene anche oggi, visto che con la rete molti lavori si fanno da casa e ci sono i mezzi per spostarsi velocemente. Sul ritorno al paese insiste molto: “La politica non fa neanche le azioni base per creare le condizioni affinché si torni ad abitarli. Non sono luoghi per le scampagnate, sono posti per vivere. È fondamentale però che sanità, scuola e trasporti siano garantiti ovunque nello stesso modo, superando gli squilibri attuali”, sostiene perentorio. Purtroppo i paesi sono visti ancora come luoghi di sofferenza e “il’abitante tipico è desolato”, quasi imbruttito.
Ma qualcosa sta mutando: Arminio parla di ‘umanesimo della montagna’. “È iniziato un lento cambiamento, si torna nelle montagne, perché lì c’è spazio mentre nelle città non c’è più e non si riesce a vivere”. Tornare quindi nei piccoli centri ma restare comunque aperti al mondo.
Il ruolo del paese rientra in una visione più ampia, incentrata sull’eccezionalità delle cose ordinarie: “Quelle semplici e quotidiane, di cui riconosciamo l’importanza solo quando rischiamo di perderle. Cerchiamo sempre un motivo per arrabbiarci, poi colmiamo l’insoddisfazione con gli acquisti”, sottolinea avvicinandosi al pubblico.
Per questo servono anche i cimiteri, luoghi che Franco Arminio frequenta spesso: “Per me la comunità è quella dei vivi ma anche dei morti, poi lì c’è una mostra d’arte contemporanea con tante immagini. Ma soprattutto sono posti che incoraggiano: perché ci ricordano che possiamo fare molte cose che i defunti non possono più fare”. Il discorso sulla morte e sul rifiuto del dolore va di pari passo con quello sulla trasformazione dell’uomo che si è allontanato da ciò che conta veramente e si è lasciato sopraffare dall’indifferenza.
Alla base di tutto l’idea che “al centro dell’universo non ci sia l’uomo, che è parte di una realtà che va dalle cose più piccole alle grandi. Purtroppo abbiamo invaso il pianeta con palazzi e strade. Se vogliamo stare ancora al mondo dobbiamo lasciare spazio alle altre creature, siamo arrivati a un punto di rottura, ma nessuno ne parla”, precisa ricorrendo anche al dialetto.
Dai suoi discorsi emerge una certa spiritualità: “Ne scrivo nel prossimo libro, comunque il rapporto con il sacro è importante, non si può vivere senza Dio pensando che dopo non ci sia niente”.
Nei precedenti incontri della rassegna erano stati protagonisti: Erri De Luca, Chiara Gamberale, Angela Bubba e Diego De Silva.