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Romina Palombo “il mio primo strumento di lavoro è il sorriso”

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Quando il mio editore, Antonio Cilli, mi ha affidato questa rubrica mi ha detto: “parla della gente comune, delle loro difficoltà, del bene che fanno spesso nel silenzio, del semplice operaio, chi ha una disabilità, delle mamme, dei papà, …. Devi raccontare questo territorio con i pregi, i difetti e le proposte che vengono dal basso, dando voce a chi generalmente non ce l’ha. In sostanza devi raccontare il territorio attraverso le persone che lo vivono”. Grazie a tutti coloro che ho intervistato finora ho appreso quanta bellezza ci può essere nelle persone che incontriamo anche tutti i giorni. Una di queste è Romina Palombo, una infermiera del San Vitale appassionata della vita e che cerca di trasmettere la sua grande vitalità anche a chi incontra. Appena le ho proposto l’intervista mi ha risposto “ne sono onorata, sono libera in questi giorni …”. È la prima volta che ricevo una risposta così bella e durante l’intervista lei si è commossa nel parlare del suo lavoro e io mi sono commossa nell’ascoltarla.

Perché hai scelto questo lavoro?

È stato un semplice caso. Dopo il diploma di maturità, nel 1995 una mia amica mi aveva chiesto di accompagnarla a fare il test d’ingresso da infermiera a Termoli. Il caso ha poi voluto che io ho superato il test e la mia amica no. E allora ho pensato “perché no proviamo”. Poi ho scoperto questa passione e più andavo avanti e più mi piaceva e mi accorgevo che mi veniva dal cuore. La cosa più bella era il contatto con i malati. Il corso prevedeva ogni giorno quattro ore di teoria e altre 4 ore di contatto diretto con i pazienti.  Dal primo giorno che sono entrata in ospedale avevo la sensazione di provare ciò che provavano loro. Mi sorprendevo che mi dispiaceva profondamente per delle persone che per me erano dei perfetti sconosciuti. Ricordo ancora il primo malato che ho avvicinato durante il corso, era un uomo di soli 45 anni con un male incurabile. Quando è morto ho pianto come con un fratello. Poi col tempo ho imparato in qualche modo ad abituarmici. Durante il corso mi ero appassionata al reparto di ostetricia e così appena ho finito il corso mi sono presa la specializzazione come infermiera di sala da parto, strumentista. Dicevo "questo è il mio mondo". Dico sempre che “l’infermiera deve ricordare l’emozione del primo giorno di lavoro altrimenti entra nella routine e questo non è un lavoro che si può fare con freddezza.”

Chi sono stati i tuoi pazienti e dove hai lavorato?

Dopo il diploma, ho avuto il mio primo incarico al 118, con le urgenze. Per me è stato traumatico. Non mi sentivo preparata. L’adrenalina saliva alle stelle già sentendo il telefono che squillava. Piangevo tutti i giorni e dicevo “non mi sento all’altezza”. Però è stata una buona formazione. Quando ti trovi ad assistere persone in fin di vita, a livello tecnico ci vuole tanta esperienza che poi ho appreso. Durante il tirocinio non sentivo la responsabilità del mio lavoro ma poi lì al 118 è stato un impatto incredibile. In seguito ho fatto esperienza con il reparto di chirurgia con i malati oncologici. Anche lì sono stata molto provata. All’inizio mi chiedevo, come facevano queste persone a vivere la malattia, in maniera così serena. In generale loro perdono la serenità ed entrano nella rassegnazione positiva. Dopo che stai 8 ore con queste persone non puoi non accorgerti che ogni istante è importante.  E quando tornavo a casa non vedevo l’ora di abbracciare le persone care. Considera che avevo solo ventitré anni e quell’esperienza mi ha fatto maturare molto. In seguito mi hanno chiamata per una sostituzione al reparto che più mi piaceva, il reparto di ostetricia di Vasto dove sono rimasta a lavorare 5 anni. Ogni volta che nasceva un bambino piangevo dalla gioia. Sempre con le sostituzioni sono entrata poi a lavorare per tre anni al reparto di malattie infettive. Nel frattempo mi sono sposata e ho avuto la mia prima figlia e non mi hanno richiamata. Ma quando mia figlia ha compiuto un anno e mezzo ho cercato di reinserirmi nel mondo di quel lavoro che mi mancava tantissimo. Ho provato a inviare il curriculum al San Vitale di San Salvo e dopo tre mesi di prova mi hanno proposto il contratto a tempo indeterminato. All’inizio non mi piaceva, rispetto alle mie esperienze precedenti, mi sentivo inutile perché avevo a che fare con persone che non avevano delle patologie per le quali serviva la mia assistenza. Per me passare dai neonati agli anziani è stato traumatico. Dopo sette mesi ho capito che loro volevano semplicemente essere ascoltati e ho scoperto la bellezza di un altro ciclo di vita. Loro sono per me dei veri maestri di vita.  Mi hanno insegnato a essere una brava mamma e una brava moglie. Per forza di cose, proprio perchè hanno vissuto tanto, ognuno di loro porta con sè un bagaglio di esperienze incredibili . La passione per questo lavoro la porto anche a casa. Con molta naturalezza spesso porto le mie figlie al san Vitale per far conoscere e vivere questi nonnini anche a loro.

Al san Vitale sicuramente capita che vedi morire tante persone. Come vivi questa esperienza?

Ogni anziano che muore per me è come un nonnino/ nonnina che se ne va. Avendo a che fare con loro per tanto tempo mi sono accorta che ci sono tanti che quando arrivano a una certa età, quasi ricercano la morte. Ogni tanto qualcuno mi dice “Gesù si è dimenticato di me, non mi vuole riprendere”. Quando mi accorgo che un nonnino se ne sta andando gli tengo semplicemente le mani per fargli sentire che gli sono vicina. Sembra strano a dirsi ma dopo che loro muoiono, il loro volto quasi si rasserena anche se hanno trascorso le ultime ore in agonia.  Quando torno a casa non vedo l’ora di abbracciare mio marito e le mie due figlie e dico ogni giorno che la vita è bella e va vissuta intensamente ogni micro istante.

 

 

 

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