Ha deciso di ricominciare da “Zero”. Anche se, a differenza di quanto rivendicava Massimo Troisi nel suo film d’esordio, le cose che finora gli sono riuscite nella sua vita sono evidentemente ben più di tre. Ma il capolavoro del compianto artista napoletano, come si vedrà in seguito, c’entra lo stesso con il suo attesissimo nuovo progetto. Parliamo di Roberto Marchionni, meglio conosciuto con il suo nome d’arte di Menotti. Il fumettista e sceneggiatore cresciuto a Vasto, candidato ai David di Donatello per la migliore sceneggiatura con “Lo chiamavano Jeeg Robot”, ieri sera ha chiuso l’undicesima edizione di “Book & Wine”, rassegna di “libri, autori e vini” svoltasi ai giardini di Palazzo d’Avalos.
Preceduto in scaletta dalla scrittrice e book blogger Giulia Ciarapica, che ha presentato la sua prima fatica letteraria “Una volta è abbastanza”, Menotti ha destato l’attenzione dei presenti con una piacevole e succosa master class di sceneggiatura, nello specifico su “Come si scrive una serie per Netflix”, spiegando con uguale efficacia i conflitti vissuti nella “writers room” come i ribaltamenti di prospettiva inseriti in una stessa scena. Già, perché Menotti, dopo aver apposto la sua firma in calce ai copioni di “Benedetta follia” di Carlo Verdone e “Non ci resta che il crimine” di Massimiliano Bruno, in questo periodo è totalmente immerso nella realizzazione di “Zero”, serie tv italiana annunciata il mese scorso da Netflix che vedrà la luce nel 2020. “È l’unico progetto presente e futuro che occupa le mie giornate, non sto facendo altro. Ci sono ancora da scegliere il regista e gli attori, il lavoro che ci attende è tantissimo”, dice sulla serie che imprimerà una svolta epocale nel mondo delle fiction italiane.
“Zero” parla ancora di un supereroe, ma storia, protagonisti e ambientazione non hanno nulla a che vedere con il tuo “Jeeg Robot”.
«Questa serie nasce dalle storie di Antonio Dikele Distefano, un giovane italiano di origine angolana che ha già scritto cinque libri. La vicenda si svolge ai giorni nostri nella periferia di Milano e ha come protagonisti italiani di seconda generazione, esattamente come Antonio. In questo suo particolarissimo mondo, io ho inserito cose che sono tipicamente mie come i fumetti e i supereroi».
Di che cosa parla più specificatamente “Zero”?
«Ci sono questi ragazzi che vivono alla “Barona”, quartiere periferico di Milano. La zona è funestata da frequenti atti di teppismo e moltissime famiglie vengono sfrattate dalle loro case. Il protagonista di questa storia, che si chiama “Zero” perché ha una canotta con il numero zero come quella di un suo idolo del basket americano, con l’aiuto del suo amico Sharif cercherà di salvare il suo quartiere».
Stasera hai spiegato l’importanza delle “idee rinfrescate”, ovvero di quelle sceneggiature capaci di andare oltre certi luoghi comuni e certi abusati meccanismi narrativi. Questo sembra essere proprio uno degli intenti di “Zero”, dove per la prima volta dei ragazzi neri italiani sono protagonisti di una serie tv.
«Quando mi hanno proposto di lavorare con Antonio, confesso che all’inizio ho pensato: “Oddio, sarà la solita storia sui migranti”. Io odio quelle che in America chiamano identity politics, ovvero gli orientamenti politici che guardano soltanto ai gruppi e non agli individui. A me invece interessano le storie, i personaggi. Per questo motivo abbiamo cercato di scrivere una serie che andasse al di là dalle solite narrazioni stereotipate fondate sull’equivalenza nero = migrante. Pensa al tormentone di Troisi in “Ricomincio da tre”: “Lei è emigrante?”. Ecco, è la stessa cosa».
Si tratta di una narrazione che, inutile dirlo, si discosta totalmente da quella proposta dal nostro ministro dell’Interno, che dell’equivalenza di cui parlavi prima si erge a strenuo portabandiera. La serie ha come obiettivo anche quello di combattere certi pregiudizi?
«Inevitabilmente questa serie verrà triturata e sviscerata anche da questo punto di vista. A me invece piace soprattutto l’idea di potermi riferire a queste persone come tali, e non come esponenti di un gruppo. Questi ragazzi della “Barona” sono individui completamente diversi tra di loro, appartengono a comunità molto piccole. Sono d’origine moldava, marocchina, egiziana: parlano la loro lingua d’origine soltanto a casa, tra loro invece si esprimono in italiano con accento milanese. Hanno età diverse, e anche per questo costituiscono un melting pot irripetibile. La vera cosa che li unisce è che si sentono tutti italiani. Come Antonio (Dikele Distefano, ndr), che io apprezzo tantissimo perché è ugualmente lontano sia da un certo “vittimismo” sia da un certo “salvinismo”».
Solo recentemente è stata istituita la Film Commission Abruzzo. Secondo te c’è un futuro per Vasto, e per l’Abruzzo in generale, sotto il punto di vista della produzione cinematografica e della conseguente promozione turistica? Quanta strada ancora c’è da fare?
«Per quanto mi riguarda, le Film Commission funzionano in ragione della capacità e della cocciutaggine delle persone che ci lavorano dentro. Se da anni moltissimi film vengono girati in Puglia o in Trentino, ad esempio, vorrà dire che in quelle commissioni ci sono persone che s’impegnano il triplo delle altre. Bisogna coinvolgere persone competenti che comincino a lavorare duramente, che facciano le cose».
A proposito di Vasto e Abruzzo: quella di stasera è stata anche una ghiotta occasione per fare ritorno a casa.
«Vasto è ancora casa mia, anche se ci vivono stabilmente soltanto i miei genitori, che risiedono alla Marina. Io invece ci sono rimasto fino ai 18 anni, da allora ci torno soprattutto per le feste comandate».
Com’è stata invece la tua migrazione dall’Emilia (Menotti è nato a Cortemaggiore, provincia di Piacenza, ndr) a Vasto, avvenuta quando eri bambino?
«La definirei tragica. Mio padre lavorava per l’Agip e fu trasferito qui. Arrivai in città che avevo sei anni, l’impatto fu abbastanza duro perché non sapevo “come mi rimettevo” (ovvero quali fossero il suo cognome e le sue origini familiari, ndr). Superato questo scoglio iniziale, mi innamorai completamente di questo posto».
Ti senti ormai un uomo di cinema o piuttosto un fumettista “prestato” a questo mondo?
«Il punto fondamentale è raccontare delle storie, che siano su carta o su pellicola per me non fa differenza, ci metto sempre lo stesso impegno. L’aspetto più sconvolgente è una stessa cosa che in un mezzo risulta banale mentre in un altro diventa originale. Qualcosa che su un fumetto può sembrare trito e ritrito, al cinema può trasformarsi in una cosa completamente diversa. E viceversa».
Cosa che hai ampiamente dimostrato con “Lo chiamavano Jeeg Robot”.
«Credo di sì (sorride, ndr)».