INTRODUZIONE
La prima cosa che mi ha fatto interessare ad Isoke è stata la differenza di passato che io e lei abbiamo avuto pur avendo, più o meno, la stessa età. Una vita che ha avuto inizio nello stesso identico modo ma che poi, per diversi motivi, ha acquistato caratteristiche del tutto diverse, non imputabili a nessuno di noi se non all’ambiente, alla società, alla struttura civile che ci ha visti nascere, crescere e che ci ha educati.
Isoke Aikpitanyi, nigeriana, ora, ha trent’anni. Ha un passato del tutto diverso dal mio che è stato ‘semplice, comodo e confortevole’, quello tipico di un ragazzo occidentale in terre consumistiche. Un passato il suo, invece, simile ad un incubo, ma tangibile come la realtà e che per sempre porterà i segni sulla pelle e nei ricordi.
La sua storia, o meglio, quella che in parte si racconterà in questo articolo, inizia nove anni fa, quando di anni lei ne aveva solo ventuno. Costretta a migrare dal suo paese africano, è giunta in Italia con una promessa di lavoro-come-si-deve rivelatasi ben presto una promessa falsa. Ed ecco che i suoi sogni s’infrangono e la dura realtà si rivela in tutto il suo buio. Il ritrovarsi sbattuta “sulla strada” è stato, per Isoke, impensabile ed inevitabile.
Qui in Italia, le donne di strada le chiamano superficialmente “prostitute”, anche se spesso sono delle vere e proprie “schiave” involontarie, proprietà indiscussa di trafficanti senza scrupoli.
Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di questa immagine. Isoke Aikpitanyi, è nata a Benin City, in Nigeria, nel 1979. Dal 2000 vive in Italia. Dopo essere stata vittima della schiavitù per tre anni nelle strade italiane, è riuscita a raggiungere la libertà personale rischiando la propria vita. Dal 2003, grazie all’associazione “Le ragazze di Benin City”, aiuta le tantissime ragazze vittime della tratta che, come lei, sono costrette a lasciare il proprio paese e che giungono in Italia. Il 2007 ha visto l’uscita del libro “Le ragazze di Benin City”, scritto insieme alla giornalista Laura Maragnani, edito da “Melampo” che ben espone il problema e che ci fa vivere coi nostri occhi il suo passato.
Obiettivi: Sensibilizzazione al problema della ‘tratta’, ulteriori punti di vista sull’emigrazione, emancipazione della donna, miglioramento dell’istruzione nei paesi africani.
DOMANDE:
1. Roberto De Ficis: Ciao Isoke, vorrei iniziare questa intervista senza giri di parole: perché sei migrata?
Isoke Aikpitanyi: Ciao Roberto. Le ragioni sono due: la prima è il sogno; tutti sognano e, in particolare, i giovani sognano. Io desideravo conoscere altri mondi, vedere con i miei occhi come si vive in altri paesi. La seconda ragione è la fuga: volevo lasciare la Nigeria, dove la mia famiglia viveva in estremo disagio e dove chi è ricco è sempre più ricco e chi è povero è sempre più povero.
2. D: In che modo, secondo te, il colonialismo tipico, ma anche quello recente che possiamo chiamare “colonialismo di mercato”, sta spezzando le ali ai paesi africani che, se andiamo a ben vedere, avrebbero tutte le carte in regola per un completo e autosufficiente sviluppo?
R: Ti dò una risposta oggi. Quando ero in Africa, un po’ perché ero troppo giovane, un po’ perché non riuscivo a vedere le cose in modo chiaro, pensavo che il mondo dei “bianchi” fosse migliore del nostro.
Questo senso di inferiorità ci è stato messo dentro proprio dai colonialisti, così l’Africa non riesce a fare da sola.
3. D: In che modo, secondo te, dovrebbe essere intesa l’istruzione in Nigeria per aiutare davvero il popolo ad emanciparsi?
R: Ci vorrebbero governi democratici e non corrotti; la Nigeria e
altri paesi africani hanno molte risorse, se le destinassero per fare
scuole... ed è solo un esempio, tutto sarebbe diverso. Invece chi
governa pensa solo alla ricchezza che si procura con il petrolio e con
altro... quasi quasi, se non ci fosse la popolazione per loro sarebbe
meglio, non dovrebbero pensare alla scuola, appunto, alla sanità, ecc.
ecc.
4. D: Come sei arrivata in Italia? Con quali mezzi e attraverso quali paesi? Cosa ti ricordi del tuo viaggio?
R: Il mio viaggio è stato “facile”: mi hanno messa su un aereo e sono
arrivata a Londra dove non ho avuto controlli doganali, insieme ad
altre ragazze. Tutto molto semplice. Poi sono stata chiusa per quasi
un mese in un appartamento, con altre ragazze... sentivamo che
trattavano la nostra vendita e dicevano: “E’ arrivata la merce...”.
5. D: Cosa pensavi di trovare in Italia e cosa, invece, hai trovato davvero?
R: In realtà pensavo di lavorare a Londra, in un supermercato a
vendere frutta e verdura, come facevo con mia mamma che aveva un
banchetto. L’Italia è venuta dopo, quando ha cominciato ad essere
chiaro che il lavoro che mi era offerto non era quello.
6. D: Qual è il ricordo più brutto che hai del tuo periodo da schiava qui in Italia?
R: E’ stato quando ho capito… quando ho cominciato a dire di NO, ho
preso la prime botte ed ho visto la mia compagna di stanza uccisa
perché diceva di NO. Ma c’è stato anche un altro momento molto brutto:
quando ho cercato una via di uscita e mi sono rivolta a diversi servizi
italiani e sono stata respinta.
7. D: Chi ti ha aiuto ad uscire dalla tua condizione di schiavitù?
R: Se rispondo “nessuno” non offendo chi mi è stato vicino; ne sono
uscita da me, ho rischiato io di essere uccisa, sono stata tre giorni
in coma per aver detto “Basta”. Non ero sola, questo sì, e per fortuna
chi mi ha offerto sostegno è stato capace di accompagnarmi in un
percorso mio, senza farmi promesse inutili.
8. D: Come, secondo te, si può risolvere il problema della tratta?
R: Sarebbe bello avere una ricetta, ma non ce l’ho. Credo di sapere,
però, che cosa si potrebbe cominciare a fare. Ad esempio: un bilancio
dei risultati di 15 anni di interventi e di documenti contro la
tratta: basterebbe ammettere che tutto ciò che è stato fatto ha
sostenuto solo una vittima su dieci. Concludere, quindi, che bisognerebbe
fare di più. La cosa principale è non respingere... non solo non respingere in mare, come succede drammaticamente oggi, ma non respingere neppure quelle che chiedono aiuto ma che non sono pronte a presentare una denuncia, e per questo, come successe a me sono respinte. Bisognerebbe investire più nell’inserimento sociale che nei percorsi che portano al conseguimento dei documenti, a conclusione dei quali le ragazze hanno i documenti.
C’è poi l’aspetto non secondario del lavoro da svolgere in Africa, lavoro di informazione e prevenzione affinché tutte sappiano che cosa le aspetta.
9. D: Sei una delle fondatrici dell'Associazione vittime ed ex vittime della tratta del progetto “Le ragazze di Benin City”. Qual è stata la più grande soddisfazione del tuo impegno a favore di queste donne?
R: Vedere tante ragazze che hanno superato la loro condizione di schiavitù non solo burocratica, ma mentale. Ragazze libere, serene, felici, capaci di costruirsi un futuro e anche una famiglia. Vedere
ragazze che si salvano dalla violenza anche se ne hanno subita tanta e
vedere ragazze che cominciano, come me, ad occuparsi di altre ragazze
che ancora sono nella tratta...
10. D: Che tipo di legame hai con queste donne? E che legame hai con le donne che sono rimaste in Nigeria?Non so, penso alle tue amiche, alla tua famiglia…
R: Delle ragazze che stanno qui divento e sono amica, sono una pari, una come loro e sono anche la dimostrazione che non tutti sono lì per fregare le altre, ma alcune riprendono la buona tradizione e usanza africana delle donne che aiutano le donne. Le donne che sono in Nigeria spesso pensano che io tolgo ad altre ragazze l’opportunità di arrivare in Europa. Ancora non sanno o fingono di non sapere che cosa vuol dire essere clandestine in Italia e in Europa, costrette a prostituirsi, ecc. ecc.
11. D: Quali sono gli ostacoli maggiori che trovate lungo il vostro cammino del progetto “Le ragazze di Benin City”?
R: Il primo ostacolo, la prima difficoltà è raccontare ed essere
ascoltate: io, ad esempio, sono arrivata in aereo e il mio viaggio è
stato sotto questo aspetto agevole; altre arrivano attraversando parte del deserto a piedi, poi solcano il mare su gommoni... quante muoiono per arrivare? E quante, poi, muoiono, qui in Europa e in Italia? Oltre 200 in pochi anni, solo in Italia. Gli stupri e ogni tipo di violenza... la gente non vuole sentire... Il problema è parlarne ed essere ascoltate.
Fare una associazione che è voce diretta delle vittime ed ex vittime non piace agli europei e agli italiani perché diciamo tutte le cose che non vogliono ascoltare: se fossimo solo delle prostitute, le cose sarebbero diverse, invece siamo schiave e questa è una situazione della quale chi non ci libera è complice. A nessuno piace sentirsi dire che è complice...
Così tutti affrontano i nostri problemi solo in quanto problemi di ragazze che si prostituiscono è più facile giustificare tutto perche i guai ce li saremmo cercati...
E’ un poco come la barzelletta italiana... “Non sono io ad essere razzista, sei tu che sei nera”. Un altro problema, però, viene fuori quando non parliamo solo delle nigeriane o delle africane, ma anche delle donne dell’est europeo, dei paesi latino americani, della Cina... ogni realtà presenta problemi diversi. Bisognerebbe allora che le donne, per prime, le donne italiane e quelle europee, accettassero semplicemente, da donna a donna, di considerarci solo delle donne, ognuna delle quali ha i suoi problemi e alcune hanno anche quello della clandestinità. Ogni violenza sulle donne, straniere e no, clandestine e no, deve essere stroncata.
12. D: Non posso e non voglio esimermi dal chiederti il tuo punto di vista sul recente Decreto Sicurezza che, in alcuni punti, regola l’arrivo dei migranti in territorio italiano. Cosa ne pensi?
R: Il problema della sicurezza non esiste... è un falso problema... ci sono dei migranti delinquenti e devono essere perseguiti, ma se anche solo essere clandestini è un reato è chiaro che abbiamo centinaia di migliaia di delinquenti in giro... assurdo... e vergognoso, dico io. Alla
sicurezza dei migranti chi ci pensa? Nessuno, non esistono, non hanno diritti... questo il problema... considerare i migranti come un problema diverso da quello degli italiani, dei francesi... dimenticando che tutti, prima o poi, sono stati migranti... le origini africane dell’intero genere umano evidenziano che se il mondo è popolato, vorrà pur dire che questi africani hanno iniziato a migrare... Pari diritti per tutti, quindi...
13. D: Grazie Isoke per la tua disponibilità. Spero di risentirti presto con buone novità.
R: Ti ringrazio molto e spero di aver soddisfatto le tue attese. Grazie ancora e a presto.
Aosta, 1 Settembre 2009