Sul caso dell'omicidio di Vasto pubblichiamo una riflessione dell’arcivescovo metropolita della diocesi di Campobasso-Bojano mons. Gian Carlo Maria Bregantini, componente della Ceam (Conferenza Episcopale Abruzzese e Molisana).
Da Bregantini un appello soprattutto alle presenze educative e religiose.
Di fronte al tema del rancore e della vendetta - sottolinea - non è tanto l’istituzione giuridica ad essere interpellata, quanto la coscienza collettiva.
LA LETTERA DI BREGANTINI. «La tragedia di Vasto ci interpella. A livelli diversi. Perché veder soffrire è una delle esperienze in cui, spesso, ci s’imbatte in un sentimento d’impotenza. Non basta prodigarsi con le parole. Specie quando, chi ci sta accanto, ha il cuore spezzato e non trova più pace. Ma come uscire dalla notte oscura? Cosa fare affinché l’altro non resti chiuso nel proprio dramma? Sono veramente domande più grandi di noi, perché siamo tutti ben consapevoli che non esiste un metodo uguale per ciascuno.
I problemi aumentano poi se restiamo dentro i tristi meccanismi, come il rancore, la vendetta, la disperazione, la giustizia fai-da-te. Facili, immediati, ma che vanno combattuti. Se questo però non avviene, ecco che succede quanto abbiamo visto verificarsi a Vasto, proprio di recente. Ha coinvolto famiglie originarie del Molise, per cui la tragedia ci ha toccato ancor più nell’intimo. E tanto mi ha fatto riflettere, sul piano educativo e sociale.
Un terribile omicidio, avvenuto da parte di un marito nei confronti di quel ragazzo che gli uccise la moglie, la scorsa estate, buttandola dal motorino, ad un incrocio non rispettato. Da allora la vita di quel giovane sposo, innamoratissimo, privato della luce dei suoi occhi dalla frettolosità di un coetaneo non fu che un passare da abisso ad abisso. Prima il dramma della perdita della sposa; poi la solitudine improvvisa e, infine, la rabbia che porta all’uccisione. Un odio non capito, coltivato anzi dalle battute di rabbia sui social. Dinamiche che ci fanno riflettere soprattutto in riferimento al lutto, nel momento in cui si sperimenta l’assenza della persona amata. Il nodo io ritengo sia proprio in quel passaggio dalla perdita al distacco più dilaniante. Il ritrovarsi soli, di colpo, senza più chi si ama.
E’ umanamente qualcosa di troppo amaro, che può arrivare a lesionare la mente, a lacerare tutte le parti del cuore, fino a soffocarlo. La vicenda ci tocca tutti. Come reagire al male ricevuto? E come accompagnare la persona ferita? Sono interrogativi che assillano tutti, le famiglie, la scuola ed anche la Chiesa. Perché forse, si poteva fare di più. Non tanto con le istituzioni giuridiche. Penso soprattutto alle presenze educative e religiose. Una vicinanza maggiore, una riflessione più attenta ed accompagnata sul tema del rancore. Per questo è importante che, chi è dentro questa esperienza, non resti abbandonato al proprio dolore.
Il dramma nasce quasi sempre nei giorni subito dopo i funerali. In quel momento, una marea di gente. Poi, il nulla, la solitudine più amara. E tanto vuoto. Così spesso il soffrire da soli può diventare connivente con tutte quelle fragilità che possono, ben presto, sfociare in stanchezze d’animo molto pericolose. “E’ follia pensare di guarire il corpo, senza prima curare l’anima”, diceva giustamente Platone. Se l’anima piange, tutta la vita esterna ne risente e ne porta i segni visibili. L’afflizione, che si annida dentro di noi, di fronte alla morte, a volte, si alterna a sentimenti di odio, di sconforto ingestibile. E può diventare una prigione da cui poi, più si va avanti, più appare difficile uscirne. Un vero labirinto, che non concede luce.
Per questo, trovo lucida la frase di Nelson Mandela, che è stato relegato in un carcere durissimo per ben 27 anni, in Sud Africa, da parte dei bianchi. Rabbia crescente, all’inizio e totale impulso alla vendetta. Poi, la progressiva maturazione. Specie con la Bibbia in mano. Non più allora, i neri contro i bianchi, che pur hanno fatto ingiustamente soffrire. Ma un capovolgimento, proprio davanti alle ondate di odio. Così scrisse: “Coltivare rancore nel cuore è come bere veleno, pensando che ciò produca la morte del tuo nemico! Non muore il tuo nemico, ma muori tu!". E con te, la tua famiglia, anzi, tre famiglie, in pianto, ora a Vasto.
Non è facile prendere coscienza del proprio tormento.
Per questo, occorrono preti vicini, docenti attenti, educatori sensibili. Occorrono oratori dove i nostri giovani si sentano accolti ed accompagnati. Ecco, il verbo che si pone come reale rimedio a simili tragedie: trovare che ti accompagna. Ed essere, noi per primi, a vario livello, capaci di accompagnare e di seguire e di pazientare. La fede, certo, può aiutare o quantomeno ci permette di gestire con pazienza e lucidità l’infelicità che ci ha sconvolto. E ancor di più sorregge la vicinanza degli amici, la carezza dei parenti.
Non possiamo, insomma, sbrigarcela da soli. L’impatto con il vuoto porta sempre con sé conseguenze. Ma dobbiamo essere pronti nella vita ad affrontarlo, non usando armi, ma con da una parte la presenza silenziosa e costante di chi ci ama e dall’altra con quello che Dio ci ha dato per farcela, anche quando tutto sembra travolto dall’impossibile e dal non-ritorno. La fiducia cioè che il dolore finirà, che un giorno potremo ritrovare chi abbiamo perso e che chi ora geme sarà ricondotto alla pace! E il cuore, non più paralizzato, si rimetterà in cammino verso quel mistero che ci aprirà la porta sulle tante risposte che ad oggi restano ancora mute».