Chi trovò la morte la notte del 6 aprile 2009 dopo la terribile scossa delle 3 e 32 che colpì L’Aquila è, in parte, responsabile della sua morte. È la sintesi della sentenza civile dei giorni scorsi che ha avuto una vasta eco sulla stampa nazionale e sui social network. È stata definita una sentenza “shock” e molti stanno esprimendo sentimenti forti di sgomento e indignazione.
Sotto le macerie della Casa dello studente morì Davide Centofanti. La compianta zia Antonietta, scomparsa a fine aprile dell’anno scorso, e la sorella Liliana nei tredici anni che ci separano da quella drammatica notte hanno sempre portato avanti la memoria di Davide e si sono impegnate a chiedere giustizia per lui e tutte le vittime. Il Comitato vittime Casa dello Studente ha riunito nel dolore e nella richiesta di giustizia la famiglia di Davide e le famiglie delle altre vittime. Dopo la sentenza dell’altro giorno Il Fatto Quotidiano ha pubblicato una riflessione di Liliana.
Rabbia, dolore, sbigottimento, delusione, amarezza sono i sentimenti che riporta Liliana Centofanti hanno animato questi giorni: “le tastiere si infiamma e forse, per una volta, chi ha da raccontare ci prova”. Reazioni che “si alzano come la polvere di quella maledetta notte, il cui odore rimarrà nelle nostre narici per tutta la vita” perché “da L’Aquila non si torna”.
Liliana Centofanti ripercorre i mesi precedenti la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009 e sottolinea come “una sentenza del genere rischia di diventare un pericoloso precedente che esautora chi di dovere dal rispondere alle proprie responsabilità, rimandando il tutto a una comunità di individui preda di un surreale meccanismo di autoregolazione per cui avrebbero scelto una forma di suicidio di massa”, “un pericolo reale di ribaltamento dello Stato di giustizia e dello Stato di diritto alla tutela e alla salvaguardia della vita” aggravando “la percezione della correttezza della giustizia in una società sempre più convinta che la buona condotta sia inutile”.
Da un punto di vista umano, prosegue la riflessione di Liliana Centofanti, “chi rimane è già spinto in un oltre dal quale non si torna”, un limbo in cui “la certezza della pena e del corretto funzionamento della macchina giudiziaria sono l’unico strumento per dare un senso a tutto”. Un limbo in cui si cerca di “reinventarsi” e pensare che “non è stato tutto vano e che la sofferenza dilaniante può essere trasformata in qualcosa” così come “l’impotenza, l’istinto di arrendersi per non sopportare l’assenza, la rabbia” che “sa diventare cieca”.
C’era chi poteva e aveva la possibilità di agire, scrive Liliana Centofanti, e quindi “aveva il dovere di garantire la salvaguardia della vita di ciascuno” e “chi ha responsabilità accertate in una società civile paga”. “Non si può schiacciare tutto indistintamente” ed esistono “gli strumenti per impedire che la realtà in cui viviamo diventi una giungla: si scrive legge, si legge dignità”.
Dopo la sentenza di questi giorni, si conclude la riflessione pubblicata da Il Fatto Quotidiano, “non possiamo né dobbiamo permetterci di cedere alla disillusione” lavorando perché resti un unicum. “C’eravamo ieri e ci siamo oggi”, da ricordare se un giorno “per stanchezza fossimo tentati di girarci dall’altra parte” e perché la recente sentenza “irride tutti, non soltanto le vittime e noi familiari, ma tutta la comunità che quella notte dormiva in casa perché è così che si fa: di casa si vive, non si muore”.