La luce di un faro che tanto somiglia a quello di Punta Penna e la musica come quella suonata con gli amici in certi locali e garage vastesi. Ma anche un principe ereditario di un continente misterioso, druidi potenti e spietati e un medico dal vissuto tragico che vuole curare l’infelicità. Sono alcuni dei granelli di sabbia che compongono “Un altro giro di clessidra”, il romanzo d’esordio del vastese Simone D’Adamio presentato ieri al cenacolo culturale “Maison Littéraire” della cartolibreria Universal in un incontro moderato da Ilaria Stivaletta.
Edita da Scatole Parlanti, l’opera era stata svelata per la prima volta al pubblico lo scorso 7 giugno a Roma. La seconda presentazione, invece, non poteva che avere luogo nella terra d’origine dell’autore, nato a Bologna ma trasferitosi a Vasto in tenera età. Attualmente D’Adamio è medico specializzando in Dermatologia e Venereologia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, ma il suo amore per la letteratura rivela radici ancora più intricate e profonde di quello per la medicina.
Una passione rovente che ha avuto il suo sfogo naturale in questo romanzo che narra delle vicende di Sergio, ragazzo problematico che nasconde un segreto inconfessabile. Nelle pagine del libro bene e male si rincorrono e si fondono indissolubili come le due realtà parallele vissute dal protagonista, tormentato da un’esistenza infelice e isolata e allo stesso tempo coinvolto in lotte instancabili contro un potere inafferrabile e corrotto. Al suo fianco ci sono però gli amici della band e una fanciulla di cui si è innamorato.
Partiamo dal titolo, senz’altro d’impatto. Perché “Un altro giro di clessidra”?
«Sta a significare la possibilità concreta di una seconda opportunità, perché tutti i protagonisti del romanzo ne hanno bisogno. A partire da Sergio, che comincia il suo viaggio nel mondo con l’ingresso nella band, il cui singolo d’esordio s’intitola proprio “Un altro giro di clessidra”».
Come nasce questo libro?
«L’idea risale al periodo delle scuole superiori, quando all’esigenza di leggere si è affiancata prepotentemente quella di scrivere. L’approccio iniziale era esclusivamente di tipo fantasy, poi ho deciso di dirottarmi su un genere misto. Il romanzo si è poi evoluto nel tempo, ma la stesura ha anche subìto molte interruzioni dovute agli studi universitari. La realizzazione quasi definitiva è avvenuta due anni fa con la partecipazione al premio Italo Calvino (concorso letterario rivolto a scrittori esordienti, ndr). Successivamente è stato rimaneggiato e modificato per proporlo alle case editrici».
Nel romanzo ci sono molti riferimenti autobiografici, tra i quali il faro di Punta Penna (evocato simbolicamente fin dalla copertina) e il gruppo musicale degli Sticky Monks in cui hai militato come bassista.
«Il faro di Punta Penna è una meta che per me ha un sapore mistico. Ma i riferimenti più forti sono legati alla musica, la quale ha avuto un ruolo imprescindibile nella mia vita, soprattutto per la gioia che mi ha dato nel condividerla con i miei amici più stretti».
Una particolarità dell’opera, come hai già accennato, è che non sembra incasellabile in alcun genere letterario: ci sono il dramma, il fantasy, la distopia.
«Il genere non è ben definito ed è stata una scelta precisa. Non volevo rivolgermi soltanto agli appassionati di fantasy, ma a diverse tipologie di lettori. In questo romanzo c’è la storia di un ragazzo ordinario - che poi tanto ordinario non è -, che cerca di uscire dal proprio guscio e che aspetta soltanto la sua occasione per far vedere quello di cui è capace. Ma c’è anche la storia di un principe che vive trincerato dietro le proprie convinzioni e che riesce poi a ricredersi, a evolversi e quindi a riscattarsi».
Quando hai deciso di pubblicare il romanzo? Ha influito in qualche modo la partecipazione al Calvino?
«Decisi di concorrere al premio quasi per gioco, o meglio per mettermi un po’ in gioco. Poi, com’era ovvio che fosse, ricevetti sia critiche negative sia recensioni positive che elogiavano l’aspetto fantasy del romanzo e che mi consigliavano di insistere maggiormente su questa strada. Cosa che non ho fatto, dato che ho preferito mantenere l’impianto narrativo ibrido. Al netto dei giudizi ricevuti, la partecipazione al concorso è stata quella molla decisiva che mi ha spinto a pubblicare il libro».
Cechov, uno dei più celebri esempi di medico-scrittore, diceva: “La medicina è la mia legittima sposa, mentre la letteratura è la mia amante: quando mi stanco di una, passo la notte con l'altra”. È così anche per te?
«Medicina e letteratura non sono due ambiti inconciliabili, anzi. Sono due aspetti della mia personalità che si completano e che si incastrano a vicenda. Credo che lasciarsi intrappolare nei rigidi parametri del rigore scientifico sia un errore: ogni tanto bisogna lasciarsi andare all’immaginazione, alle passioni, ai sogni».
Il libro avrà un seguito? Che cosa c’è nel tuo futuro di scrittore?
«Non so se avrà un seguito, dipende da quante copie riuscirà a vendere (ride, ndr). Scrivere questo romanzo mi ha dato una soddisfazione grandissima a prescindere dalla sua pubblicazione, che è stata la piacevole conclusione di un lungo percorso. Il senso di appagamento che mi ha regalato la scrittura è stato tale che mi spingerà sicuramente verso nuove idee e nuove storie».