Riceviamo e pubblichiamo dall'ex assessore Dc Basso Lucio Ritucci.
"Alle 9.25 del 16 marzo 1978, un’edizione straordinaria del Gr2 annuncia al paese il rapimento di Aldo Moro ed il massacro della sua scorta. Cominciano così quei terribili 55 giorni di angoscia e di passione, che si concluderanno il 9 maggio nel barbaro assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, fatto trovare dai sui carnefici crivellato dai colpi, nel bagagliaio di una “renault” rossa, in via Caetani.
Da allora sono passati esattamente 40 anni durante i quali, attraverso processi, confessioni, testimonianze, ricostruzioni storiche, si è cercato di definire la meccanica dell’operazione terroristica, individuare gli esecutori ed i mandanti, capire le ragioni e gli obiettivi. E, anche se non tutto è stato chiarito, sebbene restino punti oscuri e zone d’ombra, che del resto non mancano mai o quasi mai quando sui tratta di avvenimenti che hanno segnato la storia di una intera nazione, oggi quella tragedia non è più così misteriosa come appariva fino a ieri.
Nonostante ciò, e sebbene non poche siano tutte le rievocazioni giornalistiche anche recenti molto, specialmente tra i giovani ed i giovanissimi, che quei 55 giorni non hanno vissuto e non hanno potuto nemmeno studiare sui libri di testo a scuola, conoscono poco o nulla della tragedia Moro. E non è soltanto una tragedia personale ma è una tragedia politica e nazionale. L’assassinio del presidente della Dc, infatti, rappresenta il culmine della stagione terroristica, di quegli “anni di piombo” che hanno segnato, con una scia di sangue, una fase, la più drammatica della storia della Repubblica Italiana. “L’attacco al cuore dello Stato”, mosso dalle Brigate Rosse raggiunge il massimo grado di intensità con quel delitto, che doveva, nell’intento dei suoi ideatori ed esecutori, distruggere dalle fondamenta la nostra giovane democrazia.
Sul cadavere di Aldo Moro, gettato davanti ai democristiani e comunisti, ossia non a caso fatto trovare a metà strada fra piazza del Gesù e Botteghe Oscure, si combatte perciò una lotta mortale, tra i difensori della libertà ed i fautori del totalitarismo, tra la civiltà ed il terrore, trasformato in uno strumento di lotta politica, tra chi sta dalla parte dello stato repubblicano e chi vuol costruire l’anti-stato della violenza e della barbarie; che non tenta nemmeno di nascondersi dietro un “volto umano”, come quella descritta da Bernard Henri Levy. Ricordare l’assassinio di “questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”, come lo definì Paolo VI nell’omelia della messa funebre, non si può considerare quindi un gesto inutile o un omaggio rituale. Infine non possiamo fare altro che associarci alle parole con cui il Sommo Pontefice volle concludere la su preghiera: “O Signore, fa che noi tutti raccogliamo, nel puro sudario della sua nobile memoria, l’eredità superstite della sua dritta coscienza del suo esempio umano e cordiale della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta nazione italiana”.