È uscito il libro, di Enrico Galavotti, Il pane e la pace. L’episcopato di Loris Francesco Capovilla in terra d’Abruzzo (L’Aquila, Textus Edizioni, 2015, pagine 208).
Il cardinale, che compie cento anni il 14 ottobre, fu pastore a Chieti e Vasto dal 1967 al 1971.
Pubblichiamo la prefazione del volume, scritta dall’attuale arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte.
«La parola cambiamento non ci deve far paura, né renderci insolenti: non dobbiamo stupirci se molte situazioni cambiano nella Chiesa, al punto di provare spesso dispiacere e angoscia»: queste parole - scritte dall’arcivescovo Loris Francesco Capovilla nell’Annuncio della visita pastorale (11-12 ottobre 1969), dato a poco più di due anni dal suo ingresso nell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, di cui fu pastore dal 1967 al 1971 - sintetizzano lo scopo che colui che era stato segretario fedelissimo e collaboratore prezioso di Giovanni XXIII intendeva dare alla propria azione pastorale in Abruzzo.
Cambiare le cose nella luce degli insegnamenti del concilio Vaticano II: ecco il senso che Capovilla riconosceva alla missione affidatagli da Paolo VI di pastore del popolo teatino-vastese. Una missione che non poteva non scontrarsi con l’immobilismo comodo e la paura pregiudiziale del nuovo presenti in tanti di coloro che attraverso di lui erano chiamati a farsi collaboratori solerti del rinnovamento del popolo di Dio voluto dalla primavera conciliare. Il prezzo da pagare per l’arcivescovo chiamato ad attuare
la recezione del concilio nella Chiesa a lui affidata e in tutte quelle d’Abruzzo, di cui sentiva la responsabilità in quanto presidente della Conferenza episcopale regionale, era alto: e l’accurata ricerca di Enrico Galavotti lo dimostra senza ombra di dubbio.
«Capovilla pagò tutto intero questo prezzo, al punto da sentirsi indotto a presentare le dimissioni alla Santa Sede già a un anno dal suo ingresso, per poi vederle accolte tre anni dopo: sbaglierebbe, però, chi pensasse che il suo passaggio in Abruzzo sia rimasto senza frutto. Come «sussurro di brezza leggera» (1 Re, 19, 12), l’arcivescovo venuto ad aprire le porte al concilio in quella terra svolse il suo compito con tenacia, intelligenza e discrezione, riuscendo a scalfire non pochi pregiudizi e a conquistare non pochi cuori alla causa del rinnovamento della Chiesa nello spirito del Vaticano II.
Questo risultato appare più chiaro oggi, a distanza di oltre quarant’anni da quella intensa stagione, come dimostra la lettura che Galavotti fa del ministero episcopale di Capovilla nelle diocesi di Chieti e Vasto, unite sotto l’unico governo del pastore teatino, che in quegli anni e per tutto il resto della sua laboriosa esistenza è stato voce sempre aggiornata nella vita della Chiesa del post-concilio del messaggio di Giovanni XXIII, nei suoi risvolti più intimi e nelle sue aperture più profonde, in grado di tradurne il significato per l’oggi in tutta la sua freschezza, nell’attualità sempre viva del Vangelo, di cui il Vaticano II è stato eco fedele.
Lo stare costantemente alla presenza di Dio ha tenuto viva la capacità singolare di don Loris - com’è affettuosamente chiamato da chi più lo conosce - di discernere con sguardo scevro da condizionamenti le vie dello Spirito nel presente degli uomini e nel fare scelte libere da ogni calcolo o interesse di parte. È quello di cui la Chiesa e l’umanità hanno sommo bisogno, perché solo l’umiltà e la libertà del cuore donano la capacità di vedere lontano per orientare il cammino nel modo più giusto.
L’umile Papa Giovanni ha cambiato il volto e il cuore della Chiesa con la primavera del concilio da lui voluto e inaugurato, perché non si è mai misurato sull’orizzonte di piccolo cabotaggio del proprio successo, ma unicamente su quello della causa di Dio e dei poveri. Il segretario fedele ha seguito le orme del Papa buono, unendo anche lui alla bontà lo sguardo penetrante aperto al Regno che viene. Come il Pontefice che - per obbedire allo Spirito - non ebbe paura di rischiare «di far brutta figura con la storia», indicendo il concilio quando era ormai in età avanzata, così Capovilla alla scuola di un tale maestro ha imparato a «mettere sotto i piedi il suo io» e a restare aperto alle sorprese di Dio.
Rivive in lui il messaggio del grande Giovanni XXIII: la bontà e l’umile intelligenza delle cose di Dio si fanno cammino di fedeltà al Padre celeste e d’incessante rinnovamento, vissuto in obbedienza ai segni dei tempi che lo stesso Dio vivo offre nella storia. Tantum aurora est: siamo appena all’aurora, è l’espressione di Papa Giovanni che Capovilla più ama ripetere. Egli ci testimonia così un modo di essere discepolo di Gesù e uno stile di Chiesa che la profezia del concilio aveva voluto indicare come via preziosa
per tutti.
Raccontando della prima volta che il Papa gli aveva parlato dell’idea di un concilio, Capovilla confessa di non essersi dichiarato d’accordo con lui per la paura che l’età avanzata del Pontefice non gli avrebbe consentito di portare a termine l’opera iniziata. La risposta di Giovanni gli entrò nel cuore come un insegnamento che avrebbe portato con sé per tutta la vita: «Tu dimentichi che le cose non si fanno per fare bella figura, ma per obbedire a Dio. È solo quando avrai messo il tuo io sotto i piedi che potrai dirti davvero un uomo libero». E Capovilla osserva: «Aprirsi al dialogo vuol dire necessariamente abbassare le difese: un rischio per molti inaccettabile. E invece è proprio quel rischio che alimenta le possibilità della pace universale, della fratellanza fra gli uomini». Di qui l’attitudine di don Loris, uomo del dialogo, ad accogliere tutti e a far
sentire ciascuno caro al suo cuore, anche il più lontano per scelte o convinzioni profonde.
A muoverlo è l’amore a Cristo e alla Chiesa, considerata come Sposa di Cristo e proprio per questo serva dell’umanità, inviata non a farsi strada, ma a fare strada ai poveri sulle vie di Dio, che sono vie di giustizia e di pace per tutti. È l’amore verso ogni essere umano, quale che sia la sua storia, la sua cultura, il colore della sua pelle o il tenore delle sue idee. Lo stesso amore che animò la meravigliosa Pentecoste che fu il Vaticano II per tutta la Chiesa.
L’amore che Capovilla riversò sul popolo teatino-vastese nel breve arco dei quattro anni in cui ne fu pastore. Quell’amore che coincide con la bontà, di cui Papa Giovanni fu testimone esemplare, e che è anche tratto semplice e luminoso del suo fedelissimo segretario, il quale ancora oggi - raggiunto il traguardo dei cento anni - mette così in luce, alla fine della bellissima intervista che arricchisce questo libro, ciò che veramente conta: «La scienza senza la bontà gonfia e non produce nulla. Qui bisogna davvero che
continuiamo a lavorare».
Tratto dall'Osservatore Romano